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AI: Siamo proprio sicuri che si tratti di “Intelligenza”?

Ah, l’italiano, lingua tanto amata e intricata che riesce a rendere poetico anche il concetto più tecnico. Eppure, sembra che questa volta la nostra amata lingua ci abbiamo tirato un piccolo scherzo linguistico che ci sta confondendo tutti. Parliamo della traduzione di “Artificial Intelligence” (AI), che in italiano pare sia “intelligenza artificiale”. Un’operazione linguistica apparentemente semplice, no? Ma forse c’è più di quanto sembri.

Per comprendere meglio, partiamo da una comune definizione di “intelligence”, ovvero: “l’insieme delle attività informative volte ad acquisire le conoscenze necessarie a sostenere ogni processo decisionale di natura complessa. Le prime applicazioni di quella funzione che poi si definirà intelligence si rintracciano storicamente nel campo militare.”Dunque, l’intelligence è essenzialmente un’attività informativa che supporta decisioni complesse. Ma allora, cosa accade quando davanti a questa “intelligence” ci mettiamo l’aggettivo “artificial”?

Se ci fermiamo a riflettere, ci rendiamo conto che forse stiamo traducendo male (lost in translation, come direbbero gli anglofoni). Stiamo parlando di un sistema che dovrebbe aiutare a prendere decisioni complesse grazie a informazioni elaborate artificialmente. Eppure, quando diciamo “intelligenza artificiale”, l’immagine che spesso ci viene in mente è quella di un cervello elettronico che pensa e ragiona quasi come un essere umano. Una sorta di genio meccanico che ci fa tornare in mente i racconti di Isaac Asimov narrati nel libro “Io, Robot” o i replicanti del film “Blade Runner” (ho visto cose che voi umani…)

L’utilizzo di questa traduzione ci sta portando a fare considerazioni e interpretazioni sbagliate e tutto questo mi ricorda questa vecchia barzelletta:

Una lepre corre come un’ossessa in mezzo al bosco e improvvisamente incontra il cerbiatto sotto un albero.

“Che fai, sei matto? Qua in mezzo alla natura, all’aria pulita, dai, alzati e corri con me che ci alleniamo!”

“Hai ragione” dice il cerbiatto, e si mette a correre con la lepre e mentre corrono, incontrano la volpe, intenta a riposare:

“Pazza! Siamo qua in mezzo alla natura e ti riposi? Vieni a correre con noi, che ti ossigeni i polmoni!”

“Avete proprio ragione” risponde la volpe e si mette a correre con loro.

Più in giù incontrano un orso, che sta sistemando la sua tana:

“Ma non ti vergogni? Siamo qua in mezzo alla natura e tu perdi tempo? Vieni a correre con noi, che ti ossigeni i polmoni!”

L’orso con la sua calma guarda il cerbiatto e la volpe e dice: “Ma possibile che ogni volta che la lepre prende il crack, ci dobbiamo mettere tutti a correre come scemi nel bosco?!?”

Ecco, è come se stessimo correndo dietro una lepre che si è fatta di crack: cerchiamo di afferrare un concetto sfuggente, basandoci su una percezione distorta.

E poi ancora: perché “Business Intelligence” non l’abbiamo tradotta? La parola “intelligence” è presente nel vocabolario italiano, tanto valeva lasciare anche “Artificial Intelligence” in inglese o magari cercare un compresso e tradurre in “Intelligence artificiale”.

Invece no, abbiamo preferito tradurre quest’ultima, lasciando la prima nel suo stato originale, quasi come se fosse un totem intoccabile del linguaggio moderno. Forse la risposta sta nel fatto che il termine “Business Intelligence” ci suona già abbastanza esotico e sofisticato, mentre “intelligenza d’affari” suonerebbe un po’ troppo burocratico e meno affascinante.

Forse ci siamo innamorati del suono internazionale di “Business Intelligence”, mentre “intelligenza artificiale” ci sembrava abbastanza comprensibile e domestica da poter essere tradotta. Eppure, questa scelta linguistica non fa altro che creare confusione e fraintendimenti. Invece di vedere l’intelligenza artificiale come una sorta di cervello pensante, dovremmo vederla come una superlativa cassetta degli attrezzi informativa. Dopotutto, non è l’intelligenza a mancare, ma la chiarezza con cui la comunichiamo. Se continuiamo a confondere le acque con traduzioni imprecise, rischiamo di perdere una grande opportunità per il futuro e per le generazioni che lo abiteranno.

Ecco cosa stiamo facendo utilizzando la traduzione “Intelligenza” Artificiale.

Stiamo rincorrendo una definizione che potrebbe portare le generazioni future ad avere una percezione diversa da quella che è la realtà. I giovani, soprattutto i più piccoli, potrebbero vedere l’AI come una sorta di entità autonoma e superintelligente, quando in realtà è uno strumento creato dall’uomo per supportare i processi decisionali complessi. Questa percezione errata potrebbe influenzare il modo in cui le future generazioni interagiranno con la tecnologia, portandole a un approccio distorto e potenzialmente dannoso.

Albert Einstein una volta disse: “Un giorno le macchine potranno risolverci tutti i problemi, ma non saranno mai in grado di porsene uno.” Allora iniziamo a porci il primo: “Abbiamo tradotto bene?”. La risposta a questa domanda potrebbe determinare il modo in cui poter utilizzare la tecnologia nei prossimi decenni. Se vogliamo che l’Intelligence Artificiale sia compresa e utilizzata nel modo corretto, dobbiamo iniziare a comunicarla nel modo giusto, evitando così di farci commettere un errore clamoroso come egregiamente descritto dal prof. Antonino Giannone: “Se noi umanizziamo la macchina intelligente, noi disumanizziamo l’uomo”.

Solo così potremo evitare di rincorrere lepri impossibili e iniziare a fare progressi reali e significativi nel campo della tecnologia e ovviamente della relativa regolamentazione normativa.

Dimenticavo, l’illustrazione di questo articolo è stata evidentemente generata dall’AI, ma solo dopo aver analizzato il contenuto, non me l’ha proposto di “sua” iniziativa…

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